Lo smart working allunga la vita

di Andrea Avolio

Pare che, prima del Covid e dell’introduzione dello Smart Working, in Italia i lavoratori pendolari fossero circa 17 milioni.

Io ero tra questi, 220 km al giorno, sveglia alle 5 del mattino, rientro alle 19 di sera.

Praticamente vivevo solo il 20% della mia vita. E di solito era impiegato per riprendermi dagli effetti del residuo 80%.

Dover costringere una decina di milioni di persone a pendolare ogni giorno dalle proprie residenze per raggiungere i tanto agognati uffici-pollaio (o acquario per quelli più chic) in locali dagli affitti esorbitanti in aree metropolitane, era di fatto una cosa inutile e autolesionista.

Pura e semplice abitudine ereditata senza soluzione di continuità da quella cultura lavorativa italiana dei tempi in cui la calcolatrice col rotolino era una novità e la macchina da scrivere un lusso.

Forse perché nell’immaginario collettivo quell’epoca è associata al (solo) boom economico del nostro paese in epoca post-bellica, quindi evidentemente molti pensano che, se manteniamo quelle abitudini, prima o poi un altro boom deve ricapitarci.

O forse perché quelli che oggi dirigono quegli uffici a quell’epoca erano ragazzi che esordivano nel mondo del lavoro e che, grazie al ticchettio di calcolatrici nei cubicoli o allineati in fila a battere a macchina, poterono finalmente comprarsi la Fiat 500 a rate mensili o indebitarsi a vita per comprare un appartamento non troppo dissimile da quel cubicolo dove compulsavano la calcolatrice.

Quindi, in sostanza, era un problema di mancanza di immaginazione e scarsa consapevolezza dei mezzi a disposizione, due caratteristiche che spiccano in molti “manager” italiani appartenenti alla generazione dei baby boomer.

Capii che ammassare gente in ufficio “per farli lavorare” era sostanzialmente inutile quando, oltre 10 anni fa, durante un periodo di malattia, lavorai per mia scelta da casa.

All’epoca ero giovane, precario e alle prime armi e facevo decisamente più fatica di oggi per tenere il passo, quindi ci tenevo a non fare accumulare lavoro durante la mia assenza; al tempo non c’erano VPN, dischi di rete condivisi, le aziende erano molto più rilassate sul fronte cyber-security e io tenevo un backup personale del mio lavoro che aggiornavo settimanalmente, quindi collegandomi alla posta aziendale tramite una semplice webmail potevo esperire quotidianamente le pratiche che altrimenti si sarebbero accumulate per poi, una volta rientrato dal congedo, consegnarle belle e pronte, magari a dosi cadenzate.

Tutti contenti della mia puntualità, io tutto contento che al rientro era tutto sotto controllo.

Win-win.

Smart working improvvisato dieci anni prima del Covid: a quanti della mia generazione fatta di precari di belle speranze è capitato di farlo? Penso tantissimi.

Col passare degli anni arrivarono i dischi condivisi, le VPN, il cloud e io mi persuasi che, avendo padronanza di quegli strumenti informatici (e io ce l’avevo), il mio lavoro (e probabilmente quello di moltissimi miei colleghi) non aveva alcuna necessità di essere svolto in ufficio; nel mio caso lo ritenevo remotizzabile al 100%. Ne ero sicuro, avevo rimuginato su 11 anni e mezzo di esperienza di situazioni possibili e, con la tecnologia ora a disposizione, nessuna di quelle situazioni richiedeva che mi calcificassi le articolazioni della schiena in uno spazio di 2 metri quadrati in un open space in cui ognuno poteva facilmente indovinare a chi, tra tutti gli altri colleghi, era finito il deodorante quella mattina.

Nulla da fare, lo smart working restava un privilegio per pochissimi.

Come me, milioni di persone macinavano decine o centinaia di km al giorno per ammassarsi in luoghi ben precisi dove fare le stesse cose che avrebbero potuto fare da qualunque altro luogo con una connessione internet.

Però il venerdì mattina tutti a indignarsi per la crisi climatica mentre istituzioni e aziende sottoscrivevano impegni per azzerare le emissioni di CO2 (e magari potersi così rifinanziare attraverso la collocazione di Green Bonds).

Mangiavamo di fretta pasti dozzinali venduti a poco prezzo, trangugiavamo litri di caffè buca-stomaco alle macchinette per conformarci a quegli atti di socialità surrogata, dormivamo una media di 5 ore per notte, campavamo forse nei fine settimana, per quanta voglia ci restasse in mezzo alla narcolessia che caratterizzava le nostre settimane.

Peccato che ci insegnano che la salute pubblica è un valore nazionale primario, che si traduce in minori costi per la sanità e per la collettività, oltre a garantire una popolazione mediamente più produttiva.

In diversi casi gli straordinari servivano solo per arrotondare gli stipendi dei dipendenti che, con la loro prolungata presenza, si occupavano di far sentire meno soli i propri dirigenti e manager, che così potevano distinguere i sottoposti buoni, quelli che si trattenevano a ridere a comando fino all’ora dell’aperitivo, da quelli cattivi che, pur avendo lo stesso carico di lavoro, andavano inspiegabilmente via all’ora della merenda perché per rincasare dovevano farsi almeno 2 ore di viaggio.

Eppure ci lamentavamo della scarsa competitività italiana e della delocalizzazione, della scarsa produttività specie nell’ambito dei servizi, dello scarso livello di competenze di una classe dirigente obsolescente, eppure al contempo numerosissima e lautamente retribuita.

Poi, quasi 2 anni fa, è arrivato il Covid, il lockdown e, finalmente, lo Smart Working (o remote working, o lavoro agile o altri suoi parenti prossimi).

L’Italia ha scoperto che poteva fare quel balzo in avanti e che a impedirglielo finora erano state solo l’inerzia mentale diffusa, l’insipienza di chi dirige, gli indotti economici dei ristoratori di massa zona uffici, gli affitti dei palazzinari e forse alcune altre cause che, tuttavia, non so se valgono milioni di tonnellate di CO2 risparmiate, centinaia di migliaia di gastriti croniche e sindromi depressive evitate, miliardi di euro di attivo in bilancio grazie ai minori costi di strutture e personale, la redistribuzione degli indotti finalmente anche al sud e in tutta quella grande “periferia” che occupa i tre quarti della nostra penisola, e, francamente chi più ne ha più ne metta.

Certo che ci dovevano proprio sbattere il muso, e dire che ai “vertici” ci dovrebbe essere il fior fiore della classe dirigente, intriso di capacità decisionali e predittive, con stipendi che variano dai 150 ai 400mila euro/annui, al netto di premi e gettoni da doppio e triplo incarico.

Ci ha pensato la paura di un virus a farci fare quel salto che, poi, non richiedeva neppure tutto questo coraggio, solo un po’ di intelligenza, lungimiranza e fiducia.

Ma, evidentemente, ci sono parecchi casi in cui queste tre skills non sono tra i requisiti dei grandi vertici decisionali nostrani.

Ringraziamo Andrea per il suo prezioso contributo

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