Ringraziamo l’Avv. Federica Chiaranz per un nuovo contributo sulla questione dei frontalieri e sullo smart working in generale.
Come notorio, la mancata proroga dell’accordo sullo smart working tra la Confederazione Svizzera e la Repubblica Italiana, ha comportato, dal 1 febbraio 2023, il ritorno a lavoro “on site” di migliaia di frontalieri.
Ad oggi la questione risulta ancora in sospeso. Per tale ragione, il Presidente dei Comuni di Frontiera, il sindaco di Lavena Ponte Tresa, Massimo Mastromarino, ha sollecitato il nostro Governo a definire, una volta per tutte, una nuova intesa. Ma non solo, anche l’’Ocst, il sindacato svizzero frontalieri, invita l’Italia ad una nuova definizione della vicenda, suggerendo il “modello francese”. La Francia, infatti, al contrario dell’Italia, ha già convenuto una nuova soluzione, riconoscendo non solo l’importanza, ma altresì i benefici che lo smart working, nato quasi per necessità, ha apportato, divenendo, a tutti gli effetti, una nuova forma strutturale di organizzazione del lavoro. In particolar modo per i frontalieri costituisce un vantaggio. Ha infatti permesso, soprattutto alle donne lavoratrici, di ottimizzare i tempi, organizzando al meglio il proprio lavoro e riducendo altresì il traffico sulle strade.
Le interlocuzioni tra Francia e Svizzera sono sfociate in un accordo che prevede che il lavoro agile possa essere svolto fino ad un massimo del 40 % del tempo di lavoro annuale, ossia 2 giorni su 5 (il vecchio accordo prevedeva una percentuale di telelavoro del 25%). All’Italia basterebbe un “copia e incolla”, ma nonostante tutto, il Governo non ha ancora messo mano alla questione.
Il caso dei frontalieri rispecchia compiutamente quella che è la situazione Italiana odierna. Dopo la pandemia da Covid-19, infatti, lo smart working in Italia, da strumento entrato a pieno titolo nella routine organizzativa delle imprese, pare aver rallentato il suo corso, aggiudicandosi, la nostra nazione, il titolo di “fanalino di coda” in Europa per numero di persone che lavorano a distanza!
Nel Bel Paese, infatti, poco più di un occupato su dieci lavora da remoto, anche se potenzialmente potrebbero svolgere il lavoro agile almeno 4 dipendenti su 10. L’Inapp, più nello specifico, evidenzia che in Italia appena il 14,9% degli occupati alterna attività lavorativa da remoto e attività in presenza, ma potrebbero essere quasi il 40% dei lavoratori, tenendo conto delle prestazioni potenzialmente praticabili a distanza.
Finita la fase più dura della pandemia, aziende e lavoratori italiani sembrano dunque aver scelto un graduale ritorno alle modalità di lavoro più tradizionali, non andando a sfruttare, quella che può essere definita “un’opportunità di cambiamento storica” per migliorare non solo la produttività, ma anche la qualità del lavoro e della vita delle persone. Invero molteplici sono i vantaggi e i risparmi economici, sia per le aziende che per i lavoratori. In particolare, consentire il lavoro a distanza fuori dalla sede per 2 giorni a settimana, permetterebbe alle imprese di ottimizzare gli spazi, isolando aree inutilizzate e riducendo notevolmente i consumi, con un risparmio potenziale di circa 500,00 Euro l’anno per ciascuna postazione. Ma non solo, poiché se a questo si aggiungesse la decisione di ridurre anche gli spazi della sede, il risparmio potrebbe solo che aumentare, fino a circa 2.500,00 Euro l’anno per ogni lavoratore. Inoltre, anche i dipendenti avrebbero dei risparmi: sempre ipotizzando 2 giorni di lavoro da remoto, si ridurrebbero infatti i cosiddetti “commutting”, ossia i costi legati agli spostamenti, come la benzina o l’abbonamento ai mezzi pubblici. Il lavoratore potrebbe così risparmiare fino a circa 1.000,00 Euro l’anno per effetto della diminuzione dei costi di trasporto, anche se tale risparmio sarebbe in parte compensato dall’attuale aumento dei consumi domestici, stimati in circa 400,00 Euro l’anno.
Uno dei problemi è che in Italia pare essere ancora molto presente un pregiudizio di fondo, ma anche un equivoco di fondo: “lavoro da remoto” non è sinonimo di “smart working”. Smart working, nel linguaggio giuridico, significa che il lavoratore può gestire il proprio tempo e il proprio spazio come meglio ritiene, lavorando principalmente per obiettivi. Ciò implica ovviamente una maggiore fiducia e responsabilizzazione dello stesso dipendente; Lavorare da remoto, invece, significa semplicemente spostare la propria attività lavorativa fuori sede, con medesimi orari e facendo esattamente le stesse cose. Lo smart working dovrebbe essere visto come una leva di ripensamento organizzativo per migliorare i risultati aziendali e valorizzare i talenti degli individui, a loro volta incentivati dal migliorato equilibrio tra vita privata e lavoro. Ma per riuscire a passare da semplice lavoro da remoto a smart working servono cambiamenti radicali, ostacolati soprattutto da barriere di carattere culturale.
Nel contesto odierno, in cui è diventato indispensabile interrogarsi su come cambiare l’organizzazione del lavoro, la scelta italiana si discosta non poco rispetto a quanto fatto nei principali paesi europei. Quasi ovunque, infatti, si è registrato un aumento continuo dello smart working mentre l’Italia, ancora una volta, sembra voler dimostrare di non essere un paese in grado di sostenere scelte all’avanguardia.
Avv. Federica Chiaranz
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